La pandemia come disturbo simbiotico

Cover image: Paula Barragán, ¿de quién es la culpa? Edición de 15 Dibujo, impresión de archivo,  pigmento sobre 100% algodón. 130 x 110 cm, abril 2020

by Julio Echeverria, Ecuadorian, CoDirector of thediagonales Magazine

Non siamo mai stati meglio che in passato, siamo solo diversi, quando un sistema crolla lo sostituiamo con uno più forte, non migliore“. C. Pino, Cartoline Coronavirus, 14.04.2020, The New York Times

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La letalità del coronavirus, la sua natura pandemica, evidenzia la rottura della condizione simbiotica in cui la società umana si riproduce in modo complesso.

La zoonosi che sembrerebbe essere all’origine della pandemia di coronavirus la descrive, l’addomesticamento accelerato degli animali selvatici operati nel mercato di Wuhan, indica la rottura del rapporto simbiotico tra foreste ed esseri umani, animali ed esseri umani. Tutte le specie vivono con virus, molti dei quali “sono portatori di forme virali uniche” che possono migrare verso nuovi ospiti. D. Quammen lo dice nel suo libro Spillover, “quando l’uomo interferisce nei diversi ecosistemi, quando abbattiamo foreste, scaviamo pozzi e miniere, catturiamo animali, li uccidiamo o li catturiamo vivi per venderli in un mercato, alteriamo questi ecosistemi e scateniamo virus” (D. Quammen: 2014).  Il Coronavirus si trasmette tra i mammiferi e trova nei sistemi indeboliti dell’uomo (sistemi immunosoppressi), o nei polmoni affetti da contaminazione, il luogo più adatto dove stare.

Una caratteristica particolare del Coronavirus che aumenta la sua capacità di diffondersi su scala globale, ha a che fare con le forme di trasmissione, si diffonde e penetra nelle persone e ci vogliono giorni prima che i suoi sintomi vengano osservati. Questa caratteristica rende più difficile la diagnosi e mette in seri problemi qualsiasi tentativo di risposta rapida, di prevenzione o di controllo della sua espansione. 

Il virus è un agente di comunicazione che penetra nella cellula e altera il codice del suo funzionamento, facendola lavorare per consentirne la sua riproducibilità. Il suo potere di penetrazione e di espansione si riferisce alla sua capacità di contaminazione, alla possibilità di trasmettere la letalità virale e diffonderla in tutto il corpo sociale.  Il riconoscere che si tratta di un fenomeno che potenzialmente riguarda tutti, richiama il principio di generalità, ma allo stesso tempo mette in causa il principio di individualità, perché si riferisce ad un agente che si installa nella struttura cellulare di ogni corpo, di ogni individuo. Il coronavirus influenza radicalmente la dimensione del pubblico e del privato, dell’intimo e del collettivo.

Il virus scatena paura e panico, che a sua volta ostacola la capacità di risposta immunitaria. Ogni paese e Stato cerca disperatamente vie d’uscita e ciò che domina è una colossale mancanza di coordinamento, che alimenta ulteriormente la percezione della mancanza di controllo. Il panico innesca la proliferazione del virus, perché la socialità diventa il mezzo per la sua diffusione, in quanto si trasmette da individuo a individuo. Il virus colpisce la struttura stessa del rapporto sociale, che risiede nell’incontro tra gli individui, colpisce la produzione dello spazio pubblico. 

La via d’uscita più affrettata ed estrema è stata il confinamento. Il ritorno forzato all’intimità, dopodiché la dimensione del pubblico, dell’agglomerazione, è diventata patogena, incidendo sulla sostenibilità stessa di quel “modo di essere” nel mondo.

La società digitalizzata, in qualche modo, prefigurava questo ritorno alla privacy e all’intimità, lo faceva attraverso la connessione virtuale; essere nel pubblico dal potere del digito che esprime la volontà individuale. Non c’è più segno di individualità dell’impronta digitale e più evidenza del pubblico che la connessione nel cyberspazio del collettivo. Se qualcosa ha funzionato nelle aree di confinamento sono i social network, hanno costruito la realtà della paura e del panico, hanno socializzato gli stati d’animo, la riflessività collettiva, la conoscenza scientifica, al punto da permettere di seguire in tempo reale la costruzione di protocolli di ricerca, di scoperte terapeutiche, di dispositivi di immunizzazione, di costruzione e gestione dei dati; una produzione molto ampia di riflessività collettiva, che aumenta mentre il virus si espande e dispiega la sua letalità.

La letalità del virus

La presenza letale del virus mette in guardia contro la rottura del momento simbiotico in cui i sistemi biologici e socio-culturali esistono e si riproducono. Ciò che è influenzato dal coronavirus è la capacità di relazionarsi con l’ambiente, “con l’altro”, con ciò che non è ancora, ma può esserci. È questa dimensione che è portatrice di instabilità, quella che chiede di essere stabilizzata, ma che può esserlo solo in modo contingente. La paura e il panico sono proprio alla perdita di questa condizione di equilibrio contingente.

La formula del nemico invisibile con cui viene descritto il virus è in parte vera. Questi, esiste nonostante non venga osservato ad occhio nudo, per tale motivo sono necessari test e microscopi, telecamere che ne rilevino la presenza nella temperatura corporea dei soggetti, nei luoghi dove questi sono affollati. È lì che il virus trova le migliori condizioni per la sua riproduzione. L’agglomerazione è l’ambiente in cui si svolge la vita sociale e dove il virus si riproduce. Il virus mette in discussione la possibilità dell’incontro pubblico, per questo l’intervento del sistema sanitario propone il “distanziamento sociale” come cura, come terapia immunitaria. 

Il virus mette in guardia sulla centralità di questa dimensione della vita sociale che, per gli effetti dell’urbanizzazione accelerata, diventa un centro di contaminazione incontrollabile. Attraverso l’intervento del virus, la dimensione del pubblico come luogo di aggregazione diventa il suo opposto, luogo del silenzio, l’annullamento di questa possibilità. Il coronavirus costringe l’attore sociale a confinarsi nella privacy, nella sua intimità, nella famiglia che riemerge come cellula della vita sociale e come recinto di immunità e immunizzazione. La famiglia è il nucleo di base del controllo, è lo spazio di formazione dove l’individuo impara a “stare insieme”. Il virus ci costringe a riapprendere a stare insieme, a vivere insieme in quello spazio, ad abbandonare lo “stare fuori”, come spazio di indistinzione e casualità degli incontri.

Il virus rende evidente il traboccamento della possibilità dell’incontro se pensato dal punto di vista della communitas; questo non è più possibile nel contesto dell’agglomerazione ultramoderna globalizzata, fatta di sistematiche rotture e alterazioni del principio comunitario. Le crescenti migrazioni non sono altro che il risultato della rottura della comunità, masse di popolazione che vengono espulse dai luoghi di origine e spinte ad agglomerarsi nelle periferie delle grandi città. Gli agglomerati urbani non sono più sostenibili, sono fonti di inquinamento, serbatoi di precarietà e di cattiva vita.

La presenza del virus induce a pensare che le attuali forme di agglomerazione non siano sostenibili, che quello che era inteso come spazio pubblico non sia coerente con gli agglomerati urbani delle città postmoderne del tardo capitalismo. Ciò che il virus colpisce è questa illusione dello spazio pubblico, che è stata rappresentata nel concetto di Polis, luogo di dialogo in cui avviene il riconoscimento dell’esistenza dell’altro, un luogo in cui si completa la soggettività.

Il virus minaccia di annientare questo spazio della materialità degli incontri, ma più di ogni altra cosa questa illusione che è necessaria per il riconoscimento soggettivo e che diventa la semantica che ordina i comportamenti tra le persone. Questa dimensione che non è offerta dalla famiglia, ma al contrario, che si trova all’uscire da essa. 

Il principio di immunità

L’emergere della pandemia ci installa nella dominanza del paradigma immunitario (R. Esposito) [1]. È questo paradigma che ci permette di accedere più chiaramente alla comprensione del fenomeno, di scoprire lo stretto legame tra corpo e potere. Non è solo il contagio derivato da un agente biologico che altera tutto, insieme a lui si mobilizzano gli stati e i loro apparati di salute, con le loro diverse strategie sanitarie.

La convivenza con l’alterità che costituisce lo spazio pubblico, è attraversata dal principio immunitario; la società si protegge, predispone un insieme di strategie che non sono altro che filtri che permettono l’incontro e la perentoria stabilizzazione che unisce gli individui nella società. La contaminazione virale colpisce questo sistema immunitario grazie al quale la società e l’organismo vivente si riproducono.

Il principio immunitario esiste senza che ce ne accorgiamo necessariamente, è nei comportamenti di socializzazione e di incontro. Ogni incontro suppone un livello di rischio che viene elaborato dalla soggettività, è la cosiddetta “interiorizzazione dell’alterità”, è la necessaria convivenza con l’altro, al punto che questo diventa parte del sé. Tutta la psicologia da Freud in poi la tratta come soggezione al dominio del super-io, di quella forza di rappresentazione nel collettivo, che soggioga e richiama. La vita sociale è, da questo punto di vista, comminatoria e può assomigliare ad una cella o campo di concentramento. Esposito oppone l‘immunitas alla communitas, proprio per evidenziare lo stato di subordinazione a cui l’individuo è sottomesso sotto i dettami della comunità; egli deve essere in munus, cioè essere immunizzato da quel contatto in cui la sua libertà, la possibilità di essere sé stesso, può soccombere. Non c’è possibilità di societas, senza immunitas.

Allora, che rapporto si può stabilire tra la pandemia del Coronavirus e il principio di immunità? Che rapporto esiste tra la rottura del rapporto con le foreste e gli animali selvatici e quella delle relazioni sociali nello spazio pubblico? Che cosa succede con l’agglomerazione, se questa non viene prodotta e lavorata correttamente?

Installato in questa riflessione, è chiaro che non ci si richiama alla pandemia per osservare la presenza e la rilevanza del paradigma immunitario. La società si protegge in modo permanente, immunizzandosi dalla potenziale presenza annientatrice dell’agglomerazione, e allo stesso tempo dall’effetto di dissociazione, che può prodursi in quell’ambiente propizio. È grazie al paradigma immunitario che la società si protegge dalla minaccia della propria disintegrazione, latente in ogni atto di relazione o di incontro. Il magistrale lavoro di Norbert Elias [2] documenta questa costruzione permanente di meccanismi o filtri per la produzione di civiltà, che permettono il “stare insieme” ed evitano di cadere nella de-configurazione che appare come perdita di senso. Questa è la sociologia degli affetti e dell’erotismo, degli approcci e delle distanze, delle rotture e degli incontri, di cui è fatta la vita sociale.

Il coronavirus ci costringe a pensare e riflettere su questo “essere nel mondo”, su come relazionarsi con l’altro, su come rispettare lo “spazio pubblico” e non trasformarlo in un luogo di contaminazione, di asservimento dell’altro. Il virus lo fa in modo crudo, mette a nudo la condizione delle relazioni sociali e costringe a ripensarle radicalmente. 

Simbiosi e omeostasi sociale

La letalità del virus influisce su questa condizione di stabilità dinamica, che permette l’interazione tra elementi differenziati. Così facendo, mette in evidenza ciò che caratterizza ogni rapporto sociale o biologico, che è la contingenza, cioè la possibilità di “non essere”, la possibilità della caduta di quella condizione di stabilità.

La vita sociale non è stabile e il suo sviluppo non è lineare; è fatta di rotture, crisi e adattamenti permanenti. Il simbiotico appare come una soluzione emergente di stabilizzazione dinamica, come equilibrio tra la necessità di essere, di riprodursi, e il limite che questa necessità richiede per affermarsi: il limite è necessario perché questa affermazione avvenga.

Il virus influisce su questo impulso dell’individuo ad essere nella sfera pubblica, a trovare ”l’altro”, a stabilire lì lo spazio di sperimentazione di sé stesso, a testare la possibilità della sua realizzazione. L’equilibrio si riferisce alla necessità di soddisfare questo impulso, che è permanentemente minacciato, quando la soluzione simbiotica viene colpita e spezzata. Il momento in cui il limite viene superato dall’impulso stesso della realizzazione, l’equilibrio viene spezzato e la potenza con cui opera il desiderio si rivolge verso l’appropriazione possessiva dell’ambiente esterno.

L’ambiente esterno è necessario, da esso viene estratta l’energia che richiede la riproduzione del sistema. Il rapporto con l’ambiente risulterà da operazioni selettive che estraggono dall’ambiente ciò che è più congruente con le esigenze della stessa riproduzione omeostatica. La simbiosi e l’omeostasi si riferiscono alla capacità di processamento sistemico dell’ambiente esterno ed interno. L’ambiente naturale e l’ambiente sociale diventano oggetto di selettività omeostatica (W. R. Ashby). Un incontro inappropriato o non congruente con l’ambiente, può produrre alterazioni nel campo della psiche, così come nel funzionamento organico della cellula e del corpo, può generare patologie. Tutte le patologie sono il risultato di una pulsione ad apprendere l’ambiente che non viene adeguatamente processata. Questo impulso non scarica la sua energia nel processamento dell’ambiente esterno; al contrario, ruota su sé stesso senza il freno o il limite che necessariamente richiede. Il virus utilizza questo impulso ridondante e vi scatena il suo potere contaminante; quando non trova il filtro inibitore che lo elabora adeguatamente, quando non trova quel limite, entra e diffonde il suo potere di annullamento.

Il virus, con il suo dispiegamento distruttivo, può essere fermato solo con un’operazione di contenimento della rottura del momento simbiotico; il contenimento è qui disciplina del desiderio, l’istituzione di un filtro selettivo attraverso il quale proietta la sua realizzazione; il filtro è il contenimento, è l’immunizzazione contro un’elaborazione dell’ambiente che trabocca l’equilibrio omeostatico. La distanza sociale è un’operazione necessaria per la stabilizzazione omeostatica, funziona con l’autocontenimento che l’incontro simbiotico richiede; la distanza è necessaria per stabilire nuovi incontri, per mantenere la stabilità dinamica dell’elaborazione permanente dell’ambiente. Se qualcosa è colpito dalla presenza del virus è la possibilità dell’incontro tra i corpi, dello sguardo faccia a faccia, della ricchezza gestuale che rende possibile il rapporto tra gli esseri umani e su cui si costruiscono le relazioni affettive. Il ristabilimento dell’equilibrio omeostatico avrà a che fare con il recupero di questa possibilità.   

Come riconfigurare il rapporto simbiotico?

La presenza dirompente del virus e la sua diffusione incontrollabile, il confinamento forzato a cui la società è costretta, emula l’operazione effettuata da ogni sistema biologico e culturale per rispondere all’ambiente; senza chiusura, la capacità di risposta può cadere nella fretta o nello stupore. La letalità del virus si spiega in gran parte con la risposta affrettata e stordita dei sistemi sanitari, con la sua impreparazione, configurata dalla stessa alterazione simbiotica già in atto.

Quando si pensa al post-COVID 19 e alla logica di chiusura a cui la società è stata sottoposta, le risposte tendono a trascurare la complessità della stabilizzazione dei sistemi sociali e biologici, così come la logica dell’immunizzazione che è caratteristica di ogni società e cultura. La politica e l’ideologia tendono a ignorare questa implacabile dimensione: la presenza del virus è vista come se fosse il risultato di un semplice incidente in un mercato di specie selvatiche, senza sufficienti controlli sanitari; o come se rispondesse a disfunzioni o guasti di questi sistemi, e infine, come se fosse una oscura montatura dello stesso sistema che mira all’auto-boicottaggio, per poi affinare la sua logica di produzione.

L’emergenza virale è il prodotto dello stesso sistema e della sua anomalia simbiotica, del suo traboccare e conseguentemente della sua necessità di correzione.  Il virus, con la sua operazione di annientamento, apre la strada a un’efficace politica di recupero simbiotico. La domanda è che tipo di ripresa dovremmo affrontare. 

Una potrebbe essere quella del riaggiustamento dopo l’emergenza, del ritorno alla stessa situazione iniziale; una soluzione su cui scommettono tutti coloro che vedono nella pandemia l’effetto sui processi economici e che relativizzano o hanno relativizzato fin dall’inizio la necessità del confinamento. Questa strada potrebbe essere quella della gestione della catastrofe, supporrebbe il ripetersi dell’alterazione simbiotica, sicuramente ora in condizioni più avverse; uno scenario di fronte al quale la soluzione potrebbe camminare verso l’estremizzazione delle pratiche sanitarie e disciplinari. In questo caso, la guarigione significherebbe una costante dinamica di disciplina sanitaria, di fronte ad una società concepita come ospedale, dove gli individui sono pazienti in attesa di essere ricoverati in terapia intensiva.

Questa linea lavora sull’idea di ciò che, dal discorso della salute, significa il riapparire del virus e la pandemia. Il virus dovrà essere vissuto, ridurrà la sua letalità nella misura in cui il sistema immunitario lo processerà e nel farlo lo eliminerà. Qui la preoccupazione di invertire le cause dello squilibrio simbiotico non è rilevante, l’importante è rafforzare il sistema di allarmi e risposte, di fronte a fenomeni che saranno più ricorrenti, appariranno modifiche virali o nuovi virus forse più aggressivi; non alterare le dimensioni causali della destabilizzazione simbiotica, significa aggiustare i sistemi di controllo e di combattimento, sotto il paradigma della guerra, nella supposizione dell’eliminazione di tutto ciò che appare.  

L’altra via d’uscita è quella di modificare radicalmente le condizioni causali dell’alterazione simbiotica, sia in termini di impatto ambientale che di correzione della “forma” della agglomerazione. L’impatto del confinamento, il contenimento di tutte le attività, l’arresto forzato di tutte le operazioni impegnate nella logica dell’espansione e la crescita “sproporzionata” che è alla radice dell’alterazione simbiotica, devono essere rimossi. La virulenza di COVID 19 è stata tale che anche il livello di ristabilimento sarà di proporzioni radicali. Il livello della risposta sarà sia nella dimensione intima che in quella collettiva, poiché il virus ha dispiegato il suo intervento letale in entrambe le dimensioni. La chiusura è stata un potente momento di riflessione collettiva, di ripensamento della forma sociale, di riesame delle sue condizioni effettive.

Il confinamento forzato nell’intimità può sembrare una perdita di libertà per una percezione affrettata o stordita. Guardare alla chiusura come pura logica del confinamento può essere una lettura funzionale dell’operazione di resistenza alla trasformazione che il virus stesso promuove con il suo violento sconvolgimento. Una lettura che si esaurisce nella pura ridondanza della sua enorme decenza, ma che finisce per essere funzionale alla logica sanitarista e disciplinare.

La critica delle ideologie finisce per essere di nuovo necessaria per operare un’efficace riconfigurazione simbiotica. Questo dovrà iniziare con l’individuare l’operazione di chiusura, come necessaria per costituire una critica efficace alla precedente stabilizzazione simbiotica, che aveva già acquisito connotazioni patogene, a quella che camminava nella dinamica della sua obsolescenza, responsabile dell’abbattimento delle foreste e dell’eliminazione delle specie selvatiche, dell’inquinamento, agglomerazione, e dell’annichilimento entropico del corpo sociale.

Solo un’intensa riflessività collettiva globale può mettere sotto esame le condizioni di distruzione del corpo sociale, che erano già in vigore prima dell’apparizione del virus, e che questo ha avuto il compito di rivelare in modo implacabile.

Il funzionamento del virus ci costringe a esaminare tutto, la logica dell’agglomerazione, le relazioni interpersonali, i rapporti con l’ambiente, con le foreste, con la natura. Quindi, qualsiasi visione affrettata che osservi il confinamento come l’esclusiva affettazione della libertà, sotto il paradigma della logica vigilare e punire, è impotente a rendere conto di ciò che è realmente in gioco con la pandemia del coronavirus.  

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[1] R.Esposito, Immunitas.Protezione e negazione della vita (Einaudi, 2002) e, Bios, Biopolitica e filosofia (Einaudi, 2004).

[2] Norbert Elías, El proceso de la civilización (Mexico, 2010).

(Nota: l’articolo é apparso contemporaneamente nella rivista Trashumante.


L’immagine di copertina è stata gentilmente concessa da Paula Barragán.

Titolo: “¿de quién es la culpa?” Dibujo, impresión de archivo, pigmento sobre 100% algodón. 130 x 110 cm,  abril 2020 – www.paulabarragan.com