Nuovi spazi. Nelle crepe di una comunità educante

by Demetra Barone, Italian, exclusive for The diagonales

La scuola italiana a 53 anni da Lettera a una professoressa

Caro schermo,
Lei di me non ricorderà nemmeno il nome, forse solo l’indirizzo e-mail o il volto, perché lo ha memorizzato tramite un sistema di raccolta di informazioni.

Ne boccerà tanti.
Io invece ripenso spesso a lei, ai professori che vedo attraverso di lei, a quell’istituzione che chiamate scuola, agli studenti che respingete.

Ci respingete nella solitudine e ci dimenticate*.

Sono passati 53 anni da quel 1967 in cui un maestro di campagna, così mi piace definirlo, scriveva una delle denunce più feroci che siano mai state rivolte alla scuola dando avvio a una rivoluzione in senso democratico del sistema di istruzione italiano. Si tratta di Lettera a una professoressa, manifesto che denuncia l’ottusità e l’arretratezza del sistema scolastico italiano ed evidenzia la necessità di non solo avere la possibilità di andare a scuola ma anche quella di imparare a esprimersi, ovvero di avere il dominio sulla parola: sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza, sulla propria perché si possano esprimere senza sforzo le infinite ricchezze che la mente racchiude.

Andare a scuola, imparare a esprimersi. Mi ritrovo nel 2020 a riprendere in mano quel manifesto, che ho conosciuto durante i miei studi e che oggi occupa un posto di primo piano nella sezione dedicata all’insegnamento della mia libreria, e a trovarlo contemporaneo, pur sapendo che molte delle sue denunce sono diventate delle conquiste per la la scuola italiana e che il contesto nel quale mi ritrovo a sfogliare le sue pagine è profondamente cambiato rispetto a quello in cui è stato scritto. Ma, forse, i problemi di fondo, che lo rendono così comprensibile e affascinante ai miei occhi di insegnante degli anni ’20 del terzo millennio, sono gli stessi: la disuguaglianza e l’esclusione.

Ho scoperto che fare lezione attraverso uno schermo mi piace.
Mi piace il fatto di poter insegnare la lingua italiana a studenti universitari in collegamento da Beirut, Tashkent, Baku, Teheran, Lisbona, Madrid, insomma da tutto il mondo, impossibilitati a raggiungere Torino in questo momento di restrizione degli spostamenti.

Mi piace che gli studenti lavoratori possano tornare a casa dal lavoro, fare tre ore di lezione con me e magari durante la pausa cucinare la cena per loro e i loro figli.
Mi piace sperimentare le applicazioni intuitive e creative che la nuova tecnologia ci mette a disposizione.
Mi piace utilizzare queste applicazioni per rimodulare il mio modo di fare didattica o apprezzarne le modalità già consolidate.
Mi piace, infine, la possibilità, che questi schermi ci hanno dato, di continuare a costruire una comunità educante che impara a esprimersi anche attraverso nuovi mezzi, nonostante le restrizioni nei movimenti, la chiusura temporanea degli edifici scolastici, nonostante tutto.

C’è però una corda che stride fortemente in questa melodia di mi piace ed è la corda degli studenti respinti. Se negli anni sessanta del ventesimo secolo gli studenti erano respinti da un sistema classista, privo di reali possibilità per i più poveri, che non riconosceva il valore delle culture diverse da quella dominante e imponeva una norma restrittiva e lontana dalla vita reale della maggior parte degli studenti, all’inizio degli anni venti del ventunesimo secolo quali sono le ragioni del respingimento?

Tutte le tecnologie utilizzabili nel processo di insegnamento/apprendimento, dalla strumentazione cartacea alla strumentazione multimediale, possono essere causa di esclusione nel momento in cui non possono essere utilizzate dallo studente o dall’insegnante, sia per motivi legati alle competenze d’uso che per motivi legati alle possibilità di utilizzo materiale di tali tecnologie. Se prima di marzo 2020 l’uso della strumentazione multimediale era visto con entusiasmo da tutto il mondo della scuola, come una tra le tante possibilità per fare didattica, dopo questo mese è diventata l’unica soluzione possibile. L’imposizione di un simile strumento ha sconvolto le abitudini di studenti, docenti e di tutti i lavoratori della scuola, ponendo di fatto tutti di fronte alla riflessione sul tipo di scuola che vogliamo. Le manifestazioni evidenti di questa riflessione sono diverse tra di loro ma non hanno fatto altro che far emergere convinzioni e atteggiamenti già presenti nel mondo scolastico e indipendenti da un fenomeno contingente quale è quello della pandemia. Per prima cosa, è evidente che l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, come sono comunemente chiamate in ambito scolastico, sono degli strumenti potenti dal punto di vista dell’apprendimento solo se chi le usa ha un’idea chiara di didattica e compie una scelta altrettanto chiara di approccio o di approcci didattici da adottare con i propri studenti. Se questa idea e questa scelta non sono presenti, le tecnologie diventano fumo che nasconde un vuoto, l’incapacità del docente di gestire i processi di insegnamento e di apprendimento.

Seconda riflessione, l’approccio umanistico-affettivo e il ruolo dell’empatia sono teorie ormai diffuse, discusse e quasi superate nei libri dedicati alla formazione degli insegnanti, ma quanti tra gli insegnanti fanno in modo che si crei quella che Bruner chiama una relazione significativa tra docente e discente, costruita attraverso l’attenzione esplicita dell’insegnante ai bisogni dello studente e una negoziazione esplicita sulle modalità della didattica, della vita scolastica, del modo di studiare, del modo di guardare al mondo? Io credo molti, ma non è abbastanza. La tecnologia può aiutare a costruire relazioni significative ma non può sostituirsi al corpo e al suo linguaggio, soprattutto a quello spontaneo ed emotivo, che ogni buon insegnante deve saper cogliere tra i non detti del dialogo fisico che crea con i propri studenti. Terza riflessione, la scuola, così come la cultura, non sembrano la priorità delle politiche nazionali attuali e quando lo sono state i vari provvedimenti si sono tradotti in becere questioni tecniche e burocratiche che nulla hanno a che fare con l’idea alta di educazione espressa da molti documenti nazionali e internazionali.

Nella scuola democratica degli anni ’20 del ventunesimo secolo la democrazia ha lasciato il posto ai tentativi di democrazia. Tentativi che ogni scuola sta cercando di portare avanti, cercando spazi per continuare a essere comunità educante in una struttura piena di crepe che il terremoto del virus rischia di far crollare molto lentamente. Vedo in questo tentativo di farsi spazio tra le crepe la forza di resistere al crollo.
Ma cosa fare di questi spazi, senza attendere il crollo?

*Testo liberamente riadattato dall’incipit di Lettera a una professoressa.

Breve bibliografia

– Scuola di Barbiana (1967), Lettera a una Professoressa, Firenze, L.E.F.
– Bruner, J. S. (1966), Toward a Theory of Instruction. Tr. It. Verso una teoria dell’istruzione, Armando, Roma, 1982


Demetra Barone, italiana, siciliana, è specializzata nel campo delle scienze del linguaggio umano, nelle sue articolazioni e nei suoi usi, in particolar modo in ambito didattico e glottodidattico. Attualmente docente di Lettere e Italiano come lingua seconda nella scuola secondaria, si occupa di istruzione degli adulti in ambito scolastico e accademico. Viaggiatrice appassionata. Impegnata nel creare ogni giorno una società della conoscenza critica e del dialogo tra le diversità.