(e)lezioni americane. Dio e la geografica non hanno votato

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by Domenico Bilotti, exclusive for The diagonales

Quando il diritto pubblico continentale intendeva indicare una procedura democratica realmente efficiente, di solito richiamava l’adozione del bilancio in Gran Bretagna (il cd. modello Westminster) o le Presidenziali americane. Sistema maggioritario, elezioni di secondo grado: tanti delegati per ciascuno Stato, che eleggono poi il Presidente di tutti gli Stati Uniti.

Uno dei volti della crisi di questi anni è anche il fallimento della retorica iper-funzionalista: la Gran Bretagna è passata attraverso due referendum di opposta lettura. Prima la Scozia ha deciso di restare nel Regno Unito, poi il Regno tutto ha votato globalmente per la fuoriuscita dall’Unione Europea. Dal punto di vista giuridico-culturale, sarà forse inevitabile: la Gran Bretagna aveva una clausola di esclusione dalla Carta di Nizza in ragione del locale primato dei principi di common law; perdipiù, non adottava l’euro.

Dal punto di vista applicativo, sarà drammatico: le norme attuative sono ancora carenti ma già si vedono le conseguenze nell’import-export e in diritti e tutele dei lavoratori stranieri.

Con le elezioni del 2020, è caduto anche il mito dell’efficientismo elettorale americano: complicato da un ricorso mai così ampio al voto postale, legittimato da paure e restrizioni per l’alto numero dei contagi da Covid-19, esso è totalmente naufragato in ragione del lungo e periglioso conteggio delle preferenze espresse Stato per Stato.

E qui cade un altro mito: nel tendenziale e radicato bipolarismo americano, combattuto tra i democratici liberali e i repubblicani conservatori, si sono sempre profilati third parties. Si tratta di piccoli movimenti politici, espressivi soprattutto del voto d’opinione (quello ecologista radicale o quello liberista e antistatalista), che talvolta hanno un peso enorme nel singolo Stato in cui si vota, perché accattivano quel 2/3% di voti che decide la vittoria tra il Partito Repubblicano e il Partito Democratico. Stavolta non è pressoché successo: il momento, molto più che la storia delle istituzioni giuridiche statunitensi, ha reso la preferenza verso questi partiti ancor meno rilevante che in passato. Un sistema plurale, in effetti, va in sofferenza anche quando le polarizzazioni diventano troppo estreme.

E dire che stavolta gli ingredienti per un gigantesco misunderstanding di massa c’erano tutti. Trump faceva l’urlatore, l’uomo incalzato dai poteri forti, che è un argomento buono per la prima volta in cui si fa campagna elettorale, ma diventa stucchevole dopo quattro anni di potere, esercitato viepiù con un certo e compiaciuto isolazionismo. Biden voleva giocare – e ha saputo giocare – il ruolo del buon compassato, raccoglitore delle energie giovani che il Partito Democratico ha messo in evidenza soprattutto in alcuni distretti locali. Altra stranezza, tuttavia: Biden è un quasi ottantenne, da tempo nei ranghi del Partito e dell’amministrazione dello Stato, peraltro molto distante dalle correnti più innovative dei democratici. Ha saputo tenerle insieme, ma non le ha rappresentate tutte, in particolar modo non le ha rappresentate nei moti e nelle idee più vivaci.

A dispetto degli oltre tre punti di vantaggio in termini percentuali generali (in un Paese in cui votavano stavolta più di centocinquanta milioni di elettori), Biden ha ottenuto peraltro 279 delegati: una scarsa decina in più della maggioranza richiesta. E qui si nasconde forse il sapiente capolavoro tecnico-giuridico dello staff di Trump: abituato a lavorare con un candidato espressione di una minoranza relativa, per quanto cospicua, deve inserirsi in ogni baco del sistema. Mai vincere bene in uno Stato, ma prendere anche per il rotto della cuffia più Stati possibile. Non giocare proprio dove il gap è irrecuperabile: sono energie sprecate; lì, i “grandi elettori” se li aggiudicano “quegli altri”.

Hanno votato tutti, ma non hanno votato univocamente forse i tre maggiori settori dell’opinione pubblica americana, o almeno non in modo chiaramente leggibile. Nel voto dei gruppi etnici, gli afroamericani si sono segnalati ancora una volta democratici, ma con ben meno entusiasmo di quando vinse Obama (un candidato che poi, per più versi, deluse quello stesso elettorato). Gli ispanici hanno votato con sorpresa di molti, ma non degli osservatori più attenti, il Partito Repubblicano: attratti dalla sua retorica familista, convinti che la loro posizione debba essere tutelata innanzitutto dagli ispanici irregolari, essi vedono nella destra conservatrice la garanzia di preservare il sistema che li ha premiati. E i democratici dovranno riflettere bene, altrimenti, in quel bacino, rimarrà loro soltanto il voto chicano più radicale – quello meno seguito dagli organi centrali del partito.

E a sorpresa il voto delle lobbies religiose ha contato meno che in passato: ha consentito ai repubblicani di mantenere la “cintura di Dio” (gli Stati meridionali, Texas in testa, dove le forme del congregazionalismo e del cattolicesimo conservatore sono più forti); ha permesso, viepiù, nel campo del cattolicesimo progressista e del protestantesimo riformatore, ai democratici di mantenere alcuni consolidatissimi avamposti liberal, come a New York. Tuttavia, non è stato così divisivo come nei due mandati di Bush o nel primo mandato di Trump. L’impressione è che ormai in America alberghino estremismi sciocchi e laceranti, trasversali all’appartenenza culturale e religiosa. Sul Covid-19, possono essere negazionisti liberisti atei incalliti e militanti delle frange fondamentaliste estreme; sulla questione razziale, divengono intolleranti bianchi che hanno lo stesso battesimo dei cittadini di colore; sull’educazione scolastica, possono battersi per togliere Darwin dai programmi moderati tradizionalisti e sette confessioniste di varia natura.

La divisione è in America un cancro che non ha più bisogno della diversa localizzazione – Stati occidentali e orientali, meridionali e settentrionali – per capire chi vota a destra o a sinistra, né delle differenti appartenenze di fede per produrre le regole di condotta di una morale sociale dominante. L’America è intrinsecamente molto più conflittuale oggi della somma di tutti i suoi partiti. È mancata purtroppo la rappresentanza elettorale dei moti di piazza, degli esclusi dalla copertura sanitaria tanto pubblica (residuale) quanto privatistica, delle università e degli indotti industriali disossati. È mancata l’altra America, insomma. Quella parte di America che nell’atto di dichiararsi antagonista al sistema è tuttavia la sua parte più vera e il suo più intimo collante.


Domenico Bilotti collaborate with The diagonales.  He is adjoint professor of “History of Religions” at the Magna Graecia University of Catanzaro (South Italy) and holder of courses at the Master’s in “Cultural Heritage and Ecclesiastical Heritage” of the same university. The rest of the time he observes, reads, travels, attends soccer stadiums.