Città e Covid19. Riflessioni in forma di racconto

by Romeo Farinella, exclusive for The diagonales

Queste mie riflessioni sulle implicazioni urbane del Covid 19 sono generate dall’esperienza vissuta immediatamente prima e durante la pandemia, in due città molto diverse tra di loro. La prima è São Paulo, in Brasile, dalla quale sono tornato qualche giorno prima dello scoppio della quarantena e del blocco dei voli e Ferrara, la città dove vivo e lavoro e nella quale sono rimasto recluso per tutto il periodo dell’“isolamento”. Prima di addentrami in questo racconto intrecciato è opportuno, però, fissare alcuni punti generali, relativamente al soggetto di questo testo, necessari per lo sviluppo della riflessione.

L’uomo e l’ambiente: storia di una crisi antica
La storia delle città, e quindi dell’umanità, la potremmo raccontare attraverso il susseguirsi delle pandemie che sono arrivate seguendo le rotte degli uomini, determinando la sorte di numerose regioni urbane nel mondo. Le pandemie del resto sono citate dagli storici come tra i rischi più forti per l’umanità, in particolare oggi che siamo quasi 8 miliardi di persone a condividere il pianeta. Si è parlato di “Zoonosi” e del come tale rischio sia aumentato con la deforestazione del paese: uno degli indicatori più evidenti dell’attuale crisi ambientale. Potremmo azzardare l’ipotesi che la crisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente inizi, circa 10.000 anni fa, con la rivoluzione agricola ma allora eravamo pochi, così come per i secoli a venire, perlomeno fino a quando la rivoluzione si trasformerà in industriale.
Oggi le grandi riserve naturali del pianeta lasciano sempre più il posto all’urbanizzazione, all’agricoltura intensiva, alla ricerca di combustibili fossili. Viste le particolari condizioni ambientali della terra potremmo dire Il Covid 19 è una pandemia annunciata[1]. Gli ecologi, dal canto loro, hanno evidenziato come alcune delle regioni più urbanizzate del pianeta e con il più alto tasso di inquinamento dell’aria (tra le quali possiamo annoverare la pianura padana), siano state tra le più colpite nel mondo dalla pandemia. Dalle molte, forse troppe, riflessioni che si leggono sul web o sulla stampa sembra emergere, a proposito di sostenibilità o circolarità, un’accezione più prestazionale che strutturale. È naturale che le prestazioni siano importanti per misurare il fenomeno e il suo radicamento, ma sembrano essere meno rilevanti le riflessioni ontologiche, inerenti all’essenza del fenomeno e alla sua dimensione globale, ad esempio: il modello di sviluppo auspicato, le pratiche di cooperazione e di contrasto alla povertà, il come contrastare l’urbanizzazione del pianeta salvaguardando le risorse naturali. Già nel 1977, Barry Commoner sollecitava a chiudere il cerchio, perché nel rapporto tra l’uomo e l’ecosfera l’andamento da circolare è diventato lineare[2], un esempio: si estrae il petrolio, lo si trasforma in carburante che viene bruciato nei motori delle automobili, generando fumi e smog, Ma le politiche sono andate (e continuano ad andare) in altre direzioni.

Il difficile distanziamento
Un secondo ordine di considerazioni riguarda la città e gli spazi di vita. Il rapporto con il Covid 19 si rideclina in maniera diversa nelle città del mondo. Questo ci impone di non generalizzare soluzioni che posso andare bene per le aree urbane benestanti d’Europa (dove comunque le sacche di povertà sono in aumento) ma non in altre parti del pianeta. Un esempio, il “distanziamento sociale” se appare una pratica applicabile, seppur con fatica da noi, è certamente impossibile nelle città del sud del mondo dove regna l’informalità. Come distanziare i moradores de rua che nelle città brasiliane vivono nelle strade e sotto i viadotti, dando vita a veri e propri insediamenti con spazi privati e collettivi? O ancora come distanziare le donne africane che tutte le mattine escono dalle proprie abitazioni, dove vivono interi clan familiari (20-30 persone), per recarsi al mercato ad approvvigionarsi di cibo? E come gestire le attività informali che ogni mattina aumentano lungo le strade grazie ai nuovi venuti in città dalle campagne africane? La stampa nei giorni dell’isolamento ci ha riempito di banalità dette da archistar o da nuovi maitre à penser, che sfruttando le loro aderenze mediatiche hanno riempito le cronache di frivolezze. E così è iniziata una rincorsa allo scenario più lungimirante sentenziando che dobbiamo vivere in case di almeno 60 mq., con spazi per lo smart working, ma vi è anche l’alternativa di vivere nei tanti bei borghi del paesaggio italiano, che sono vuoti. Luoghi remoti dove lavorare in remoto ma connessi con il mondo virtuale. Può essere una reazione alla alienazione della città ma perché sono vuoti questi borghi? Dove compro il pane? E se ho bisogno del medico, dove vado, visto che in Italia hanno chiuso tutte le strutture ospedaliere di piccola e media dimensione? E poi speriamo che non si debba fare la coda con l’automobile di classe 6 per portare i figli nella scuola più vicina. Se non sei anziano, oggi vivere nei borghi o ritornare a vivere dei borghi è una scelta di “classe”, o una scelta “esclusiva” che la grande parte della popolazione urbana non può permettersi, quindi perché proporla come una delle soluzioni al problema dell’abitare nelle città infette? Il dibattito sul che fare dei borghi svuotati è uno dei temi della Agenzia per la Coesione Internazionale proposta per le aree interne nel 2013 da Fabrizio Barca, e vanta in Italia una ricca tradizioni di riflessioni e proposte mai divenute politiche concrete. Forse è opportuno rispolverare quelle o comunque ripartire da lì, e non dalle sollecitazioni interessate di architetti che, dopo aver riempito il mondo urbano di grattacieli per ricchi e benestanti, ora scoprono il countryside.
Ma il dibattito si allarga e si va alla ricerca di nuovi mondi. Grazie alla curiosità di un importante giornale nazionale, ora è entrato nel dibattito anche il pianeta Marte, e così abbiamo scoperto che non siamo più solo dei cittadini globalizzati ma anche interplanetari e sul pianeta rosso potremmo vivere nella nostra bolla ricca di verde, case e orti: una “condizione abitativa” non molto diversa da quanto sperimentato, in questi anni, dal tecno-ecologismo nei paesi del Golfo. La mediatizzazione, nella nostra società “usa e getta”, ha assunto un peso sempre più rilevante, ciò appare evidente in due atteggiamenti. Il primo è la banalizzazione dell’informazione a discapito della riflessione critica. La stampa e la televisione campano su personaggi mediatici che vengono interpellati su tutto, al di là delle loro reali competenze. Il secondo aspetto riguarda la non considerazione da parte di chi controlla l’informazione e di chi governa il paese, del lavoro di ricerca profondo che le università e le istituzioni di ricerca producono. Ai recenti “stati generali” promossi da Giuseppe Conte, per le questioni riguardanti l’abitare e la città gli interlocutori del nostro premier erano alcune archistar che rappresentavano solo loro stesse e la loro capacità di essere sempre nel posto giusto e al momento giusto; non erano invitati, ad esempio, i presidenti delle due società scientifiche italiane che si occupano di urbanistica (INU e SIU) e che raggruppano la maggioranza delle università italiane.

Le nuove povertà
Una terza considerazione la potremmo associare al tema delle disuguaglianze e del diritto alla città. Qui ritorna in ballo in tema della città dei ricchi e dei poveri[3] come chiave di lettura della geografia sociale urbana. Ho già accennato al tema parlando del Brasile e dell’Africa, ma nuove povertà, sempre più accentuate, le troviamo anche nelle nostre città europee dove pensavamo di averle sconfitte. Non è un caso che il Covid 19 a Parigi non abbia colpito il centro cittadino ma il dipartimento della Seine Saint Denis che è uno dei territori più poveri della banlieue parigina con un forte metissage culturale. Analogamente a New York la mortalità nei quartieri poveri è stata doppia. Questo mi porta a dire che questo tipo di crisi, come di qualunque altra, in primis quella ambientale, non possiamo risolverla se non a livello globale. Dobbiamo lavorare sulle città esistenti cercando di migliorarle per quello che sono e lavorando sui meccanismi che le regolano. Amartya Sen vent’anni fa, introducendo il suo libro dedicato al rapporto tra sviluppo e libertà, evidenzia come ora il mondo sia caratterizzato da una opulenza senza precedenti eppure le privazioni, la miseria, l’oppressione diventano sempre più grandi[4]. Il neoliberismo ha radicalizzato l’organizzazione sociale, ha reso evidenti le disuguaglianze, ma il diritto alla città è per tutti e non possiamo generalizzare a tutti pratiche e modelli abitativi pensati per particolari segmenti sociali benestanti, perché questo non sarà possibile e non porsi il problema delle disuguaglianze nelle politiche urbane significa negare il diritto di cui parlavamo sopra. Questo ci riporta alla cooperazione e al come affrontare i problemi per ricercare delle soluzioni. Anthony Giddens sostiene che i paesi industrializzati devono essere in prima fila nella lotta contro il cambiamento climatico (e contro il Covid 19, aggiungo) ma le possibilità di successo dipenderanno in larga misura dalla capacità di governo degli stati[5]. E poi rischio chiama rischio ed entrano in ballo i problemi derivanti dalla povertà, le carestie, le guerre, la mancanza di acqua e i migranti stanno diventando anche climatici.

Il colonialismo urbanistico
Veniamo ora al racconto intrecciato. Quando la stampa ha iniziato a diffondere le notizie della pandemia ero in Brasile, a São Paulo, alla Universidade Presbiteriana Mackenzie, dove, insieme a colleghi brasiliani, stavamo lavorando con un gruppo di studenti dei nostri due paesi. Il ritorno è avvenuto appena in tempo. Rientrati è iniziato l’isolamento in casa e la riprogrammazione di tutte le attività universitarie “in remoto” e siamo tutti entrati in un vortice che ci ha tenuti incollati per tre mesi alle nostre sedie e poltrone. Nel frattempo attività già organizzate in Ecuador, in Grecia, nel Delta del Po sono state riprogrammate, prima di un mese poi di un altro, per maggio aspettavamo gli amici brasiliani a Ferrara, per la seconda tappa del nostro workshop, ed ora non sappiamo quando ci rivedremo, fisicamente. In realtà molte delle nostre attività sono state svolte ma a distanza, con il filtro dello schermo e della piattaforma. Il non poter più vivere la città fisica e sociale ci ha portato a riflettere sui nostri modelli di vita collettivi e privati, e lo spettro della perenne solitudine mediata dalla connessione web è divenuto una realtà. A Ferrara, e in Italia la reazione alla pandemia è stata abbastanza tempestiva, seppur con differenze regionali, e mentre noi eravamo chiusi in casa gli amici brasiliani ancora condividevano la strada e il loro Presidente parlava (e parla ancora) di “gripezinha”. Pensando alle misure che in Italia si stavano varando e che in buona parte sono state praticate dai cittadini, il pensiero correva alle città brasiliane ma anche sudamericane, africane, orientali con le quali lavoro regolarmente e pensavo come le nostre misure potevano applicarsi in quei contesti. Pensavo a luoghi come i mercati d Quito, São Paulo o Dakar, pensavo al quartiere dei pescatori di Guet Ndar  a Saint Louis du Sénégal, uno dei più densi al mondo, dove nella stessa casa un clan familiare si turna durante il giorno per dormire perché non c’è spazio per tutti. Pensavo alle strade percorse in autobus tra le principali città del Brasile, dell’Ecuador, o dell’Africa occidentale dove tra la natura e i silenzi delle Ande, della foresta atlantica o della brousse africana spuntano improvvisamente animatissimi villaggi mercantili che sostengono i tanti camionisti, e autisti che percorrono quelle strade. Come applicare il “distanziamento sociale” in queste situazioni. Se in Italia gli anziani sono stati la fascia sociale maggiormente colpita, nelle situazioni di Southern Urbanism, il fenomeno ha riguardato prevalentemente i poveri colpiti dai virus portati da chi viaggia (occidentali e borghesia locale). Ho pensato a come molte di queste città, in Brasile o in Africa, siano state costruite o ampliate tra Otto e Novecento sulla scia del pensiero urbanistico europeo che doveva igienizzare le sue malate città industriali, applicando principi quali l’accesso alla luce, all’aria che doveva scorrere libera tra le strade ampie, al verde, ovviamente tutto questo era pensato per le città abitate dagli europei, o dalla borghesia locale in corso di formazione. Il fondo il colonialismo “urbanistico” e segregativo non è mai morto, lo vediamo anche oggi nelle città sud del mondo, interessate da ricchi progetti di urbanizzazione che impongono ipocrite smart e green city all’europea nei deserti africani o nelle foreste tropicali. A São Paulo la costruzione del quartiere di Higienópolis inizia alla fine dell’Ottocento, su di una altura attraversata dai venti e circondata dai quartieri poveri dove la febre amarela e altre epidemie imperversavano. Nei medesimi anni, la legge del 1888 abolisce la schiavitù ma determinata la nascita dei quartieri informali, conosciuti con il nome di favelas. Tali insediamenti vengono costruiti dagli ex schiavi, liberati ma non assistiti, in cerca di un posto dove vivere nei paraggi di una città. Ovviamente allora come oggi non tutti potevano vivere a Higienópolis. Spostandoci a Dakar, vediamo analoghi principi applicati alla costruzione del quartiere della Medina. avvenuta nel 1914 a seguito della epidemia di peste che colpì l’allora capitale dell’Africa occidentale francese.

Il modello della città – paesaggio
Al contrario Ferrara è città storicamente predisposta al “distanziamento sociale” per le sue dimensioni e per il suo essere un grosso borgo rurale, con episodi e nodi da capitale rinascimentale. Il suo recinto murario era talmente grande che non fu mai riempito, nemmeno nei cinquecento anni che separano la costruzione dell’addizione Erculea dai nostri giorni. Un perimetro fortificato forse più grande di quelli scomparsi e sostituiti da viali di Bologna e Firenze e il doppio di quelli di Modena o Lucca. Fuori mura quartieri residenziali periferici, una grossa area industriale chimica, in parte dismessa, alcuni centri commerciali, con cunei di campagna che arrivano a lambire le mura storiche. Restando dentro le mura, la solitudine è una dimensioni che appartiene a Ferrara. Capita quando una città viene pensata per essere una capitale di uno stato e poi “improvvisamente” si trova ad essere un presidio periferico di un altro stato. La sua decadente grazia ricorre certamente in Gabriele D’Annunzio che, insieme a Pisa e Ravenna, la colloca tra le “città del silenzio” decantandone la “deserta bellezza”. Ferrara appartiene a Giorgio Bassani che non si sottrae dal segnare nel suo romanzo ferrarese questa sua introversione, questo suo intreccio di città e campagna dove, in aree anche prossime al centro, si respira l’odore della terra coltivata e si è colpiti dal silenzio.
Ma gli autori che forse più hanno sintetizzato il carattere solitario della città sono due: Charles Dickens e Michel Butor. Tra le loro descrizioni della città sono passati poco più di cento anni ed entrambi sottolineano la decadenza di una città un tempo grandiosa. Se Butor descrive i principali luoghi dell’addizione Erculea come rovine (morceaux réels) di una città sognata e mai finita, Dickens associa ai luoghi, che rendevano Ferrara attrattiva per un viaggiatore del Grand Tours, ovvero la casa dell’Ariosto e la prigione del Tasso, la descrizione di queste lunghe strade dove erbe rampicanti e erbacce stanno riempiendo le lunghe e silenti strade, che gli appiano unreal and spectral.

Potremmo, per le città europee (in grande parte di dimensioni piccole e medie)  associare queste sintetiche descrizioni della Ferrara storica a un modello possibile di città-paesaggio, dove la campagna e l’agricoltura urbana esiste da sempre, dove i nove chilometri di mura da quarant’anni costituiscono, allo stesso tempo, uno straordinario corridoio monumentale, verde e sociale, dove la crescita dei quartieri storici non ha cancellato quelli precedenti ma si è affiancata, attraverso le “addizioni”. Insomma una città/borgo che seppur distanziata, silenziosa e rarefatta, consente in pochi minuti di bicicletta di passare dalle attività e dal fermento tipico della piazza italiana al silenzio della campagna, caso mai percorrendo un asse che attraversa tutta la città rinascimentale e dove gradualmente dalla densità del centro si transita verso la rarefazione della campagna, pur restando dentro le mura storiche. Intendiamoci non si tratta di una città perfetta anzi presenta oggi un deficit di progettualità e di vision impressionante. Tutte le sue qualità descritte appartengono alla sua storia e i suoi progetti più rilevanti sono “episodi” concepiti tra la fine dell’Quattrocento (l’Addizione erculea) e gli anni ’80 del Novecento (il Progetto Mura e il Parco urbano).
Ma inconsapevolmente in queste operazioni ritroviamo, seppur casualmente, i “podromi” di un processo e di un progetto che oggi manca a Ferrara e al nostro paese. I temi ricorrenti nelle agende politiche, pressate dagli studi sui cambiamenti climatici e ora dall’impatto della pandemia, parlano di città e natura, di aree urbane car free, di mobilità dolce, di città resilienti, attive e accoglienti ma ahimè spesso ne parlano solo. Potenziare la mobilità dolce è un’ottima scelta ma va governata. Si rafforzano sempre più i conflitti tra pedoni, ciclisti e possiamo aggiungere anche i monopattini. Questi ultimi sono anche pericolosi e come garantiamo la sicurezza agli anziani (la componente più numerosa della nostra società)? Il come si intrecciano le varie forme di accessibilità (privata, pubblica, dolce) prima di essere un problema tecnico/normativo da PUMS (Piano urbano della mobilità sostenibile) è un tema di civiltà, di diritto alla città, di strategia urbana e di assunzione di responsabilità di governo. Entra in campo la qualità e l’autorevolezza della governance, a livello locale e globale, e la consapevolezza che oggi la nostra società è più reattiva a parole che non con i fatti, verso le crisi globali siano esse pandemiche o climatiche.
Dovremmo fare tesoro del ricco patrimonio di conoscenze e esperienze che la storia urbana ci ha consegnato. Abbiamo a disposizione esperienze come quelle di F.L.Olmsted, a J.C.N.Forestier, o di P. Geddes che hanno trasformato l’idea di verde e natura in “materiale” per la riforma delle metropoli ottocentesche introducendo concetti quali il “corridoio verde” o il “sistema di parchi urbani”. Così come abbiamo tutto il dibattito sviluppato attorno al concetto di sviluppo sostenibile, di rischio, circolarità, sopra citato. Tutto questo parlare oggi di natura e città, di trame verdi e di acqua come soluzioni per “ecologizzare” le nostre città è in fondo per gli urbanisti un ritorno a casa, ai fondamenti, potremmo dire. Si tratta di un ottimo punto di ripartenza, se qualcuno accende il motore, o accelera il processo.
Ma stiamo parlando di Ferrara che è in Europa; nel mondo la situazione è molto più ricca di conflitti e disuguaglianze e la nostra casa è anche in questo mondo.

NOTE

[1] G.L.Bocchi, 2020, Covid 19: il conflitto delle idee, in “Nuova rassegna di studi psichiatrici”, Vol.20.
[2] B. Commoner, 1977. Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano.
[3] B. Secchi, 2013, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Roma-Bari.
[4] A. Sen, 2000, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano.
[5] A. Giddens, 2011, La politica del cambiamento climatico, il Saggiatore, Milano.

Immagine in evidenza: Foto di Pete Linforth


Romeo Farinella, Italian, Architect, PhD, Associate Professor of Urban Planning at the Department of Architecture of the University of Ferrara, where he directs CITERlab, laboratory on urban and territorial design. He directs the University of Ferrara Centre for International Development Cooperation. He is author of researches and publications on the theories and history of Italian and European urban planning; the urban history of Paris; the problems of urban regeneration associated with risk and climate change. He has held lectures, conferences and participated in workshops in numerous foreign universities.

Romeo Farinella, Italiano, Architetto, Dottore di ricerca, Professore associato di Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara, dove dirige il CITERlab, laboratorio sul progetto urbano e territoriale. Dirige il Centro dell’Università di Ferrara per la Cooperazione allo sviluppo internazionale. È autore di ricerche e pubblicazioni riguardanti le teorie e la storia dell’urbanistica italiana ed europea; la storia urbanistica di Parigi; le problematiche della rigenerazione urbana associate ai temi del rischio e dei cambiamenti climatici. Ha tenuto lezioni, conferenze e partecipato a workshop in numerose università straniere.