by Salvatore Barone*, Italy, exclusive forThe diagonales
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Con l’arrivo di maggio Telemaco perdeva la voglia di andare a scuola. La fine dell’anno scolastico si avvicinava, il mare mandava per le strade della città i suoi profumi e i suoi allettanti, eppur misteriosi, inviti e il ragazzo si persuadeva che durante l’anno scolastico s’era impegnato molto. Pertanto, un giorno decise che avrebbe marinato la scuola.
Il padre, marinaio di lungo corso, si era imbarcato da poco e sarebbe passato molto tempo prima del suo ritorno. Si ricordò del vecchio professor Socrate De Montis che non vedeva da un po’ di tempo. Lo aveva conosciuto l’estate passata, in riva al mare, mentre, seduto su uno scoglio, era intento a guardare l’orizzonte. Da quella volta lo aveva rivisto quasi tutti i giorni nel restante periodo delle belle giornate; più di rado in inverno. Chissà, forse lo avrebbe ritrovato a passeggiare lungo il litorale. Decise così di indirizzare i suoi passi verso la scogliera che da Catania prosegue verso Aci Castello.
Il professore era un tipo solitario, dai grandi occhi indagatori e infossati, per via delle troppe sigarette che aveva fumato nella sua vita. Quando ti guardava sembrava che volesse chiederti qualcosa d’importante e le sue parole, ogni volta, ti davano un barlume di luce su quello che i suoi occhi vedevano. A Telemaco piaceva parlare con lui.
Non dovette camminare molto prima di trovarlo. Come spesso accadeva, forse a causa dell’età, era seduto su uno scoglio, dolcemente lambito dalle onde. Il ragazzo gli si avvicinò senza far rumore per non disturbarlo e non lo salutò. Il professor De Montis, però, lo aveva sentito arrivare. Fu lui, infatti, a rivolgergli la parola:
Telemaco, è da un po’ che non ci vediamo.
La scuola! Mi ha impegnato troppo.
Lo studio non impegna mai troppo.
Sì, però ci sono tanti modi per imparare.
Hai ragione!
Rimasero in silenzio finché fu di nuovo il vecchio professore a parlare per primo e a chiedere:
Di cosa vuoi che parliamo?
Telemaco rifletté un po’. Poi, di botto, esclamò:
Del nostro dialetto!
Ah! L’argomento è interessante. Ma come potremmo discorrerne? Fammi pensare.
Anche il professore si diede qualche istante di pausa. Infine esordì così:
Cercherò di interpretare per te alcune parole ed espressioni del nostro dialetto. Stammi ad ascoltare, e dimmi cosa ne pensi. Voglio cominciare con “cattivu”. Conosci questa parola?
E’ la persona cattiva, che fa cose con cattiveria.
Anche. Ma nel nostro dialetto “u cattivu” o “a cattiva” designano pure lo sposo o la sposa ai quali sono morti la moglie o il marito. Essi potrebbero risposarsi, ma, chissà per quali condizionamenti sociali o motivi personali, decidono di non farlo. Possono rimanere in questo stato civile per molti anni e in alcuni casi per tutta la vita. Le situazioni sono differenziate e riflettono ognuna particolari eventi o cause che le hanno provocate. Ora, non credo che può interessarci fare qui una casistica, ma riflettere sulla parola che definisce nel nostro dialetto lo stato di vedovo e, se ciò non appare azzardato, individuare alcune motivazioni del suo comportamento. Cattivo, cattiva…. Risalta subito l’identica denotazione della parola con l’aggettivo della lingua italiana. Cambia, però, il significato. In italiano, secondo la definizione che ne dà il dizionario, il cattivo è colui che è contrario ai modelli e ai principi morali correnti. È un essere riprovevole, malvagio agli occhi dei più. Come vedi, sarebbe avventato e ingiusto stabilire una stretta comparazione tra il significato della parola nella lingua italiana e il suo significato nel dialetto siciliano. Però è strano che nel nostro dialetto per designare la condizione del vedovo o della vedova si ricorra a un aggettivo così fortemente connotato nella lingua italiana; una parola che, fra l’altro, nel siciliano diventa un sostantivo. Ho riflettuto spesso su queste stranezze e mi sono chiesto se il chiamare “cattivu” il vedovo non abbia a che fare con lo stato di cattività, una sorta di prigionia morale in cui i nostri vedovi e, ancor più, le nostre vedove si rinchiudevano o venivano rinchiusi per rispettare la memoria delle spose e degli sposi defunti. Da questa condizione di “cattività” poteva emergere uno stato di frustrazione non facilmente contenibile che, a sua volta, poteva veramente “incattivire” gli animi di questi sventurati.
Tutto qui?
Ti sembra poco?
Il ragazzo non rispose. Voleva continuare ad ascoltare e così invitò il professore a riprendere le sue considerazioni sulle parole dialettali. Il professor De Montis gli rivolse un sorriso e gli chiese:
Hai mai sentito il verbo “ciuciuliari”?
Qualche volta?
Il “ciuciuliari”, come forse dunque saprai, è un particolare modo di parlare. Due o più persone che “ciuciulianu” intendono far vedere a una o più persone che li osservano che si sta parlando di qualcosa che li riguarda. Ma chi “ciuciulia” non vuole far sentire nulla di chiaro, solo il “ciuciuliari” che è un insieme di suoni, una perversa melodia, una specie di fastidioso canto di uccelli, l’inizio del dubbio e del sospetto in chi si sente oggetto del “ciuciuliu”. Si vuole creare un clima di sospensione, di incertezza perché chi “ciuciulia” non è interessato a chiarire i fatti, ma solo ad infondere il dubbio.
Non c’è comunicazione, – osservò Telemaco.
Hai detto bene. Ti dirò di più: non si vuole comunicare veramente.
Osservarono qualche istante di silenzio, poi fu lo stesso professor De Montis a riprendere:
Già che ci siamo, a proposito dei luoghi della comunicazione ti dirò del “curtigghiu”. Forse qualche volta hai sentito anche questa parola.
Sì, qualche volta.
Ebbene, “u curtigghiu” era il luogo fisico della comunicazione sociale e i “curtigghiari” erano i suoi frequentatori. Tipico spazio dell’architettura urbana del meridione ai tempi della civiltà contadina, “u curtigghiu” era il luogo, in genere chiuso in tre lati dalle mura delle case, dove i viciniori si riunivano per attendere ai lavori domestici, per parlare e qualche volta per “ciuciuliari”. Nelle belle giornate, solitamente erano le donne a darsi tacito ed abituale appuntamento nei “curtigghi”. Ma non si parlava soltanto. Mentre gli uomini erano a lavorare in campagna, le donne finiti i lavori di casa, vi si riunivano anche per adempiere a lavori di cucito, di ricamo o a lavori di trasformazione dei prodotti agricoli. Era, quindi, sia il luogo del tempo libero, quando ancora questa nozione sociologica non esisteva, sia il luogo dove le donne aiutavano i loro uomini a rendere commestibili i prodotti della Terra. Ad esempio, mescolare l’estratto di pomodori sotto il sole cocente, togliere il mallo alle noci, una volta fatte essiccare, sgusciare a colpi di pietra le mandorle dure, eccetera. La meccanizzazione della vita sociale e adesso l’elettrificazione e l’informatizzazione delle relazioni umane hanno reso più difficile, se non impossibile, la riunione in questi luoghi, perlopiù usati per il posteggio degli autoveicoli. Quando “u curtigghiu” era il luogo della comunicazione sociale il contadino vi arrivava con il proprio asino, mulo o cavallo ed erano questi animali che egli legava alla “vuccula”. Ma l’asino, il mulo e il cavallo addomesticato erano animali discreti e non valevano certo le decine di “cavalli” dei mezzi di trasporto odierni, rombanti inquinanti e oltremodo rumorosi.
E la “vuccula”, cos’era?
Era un ferro battuto, di forma tondeggiante, attaccato al muro esterno delle case. Vi veniva allacciata la corda con la quale si conduceva l’animale.
I due furono distratti da alcuni pesci che s’erano avvicinati agli scogli e che sembravano in combutta tra di loro. Qualcosa galleggiava a filo d’acqua e irrimediabilmente il più grosso di loro riuscì a farne un boccone.
“Musta ‘cca!”. Hai mai sentito questa espressione?
No, mai!
Letteralmente vuol dire “Dammi qua!”. È un imperativo categorico? No! Questa espressione non ha nulla a che vedere con la morale kantiana. Nel filosofo l’imperativo categorico era una ingiunzione che l’io faceva a sé stesso per indirizzare la propria azione verso il raggiungimento di fini ritenuti giusti. “Musta ‘cca!” esprime, invece, un rapporto fra almeno due individui ed ha per oggetto il possesso di un qualche bene tangibile. “Musta ‘cca!” ha il sapore dell’estorsione che un prepotente opera nei confronti di una persona più debole; è un residuo del linguaggio feudale e della sua concezione dell’organizzazione sociale. Il fatto che fino a qualche tempo fa si sia mantenuta come espressione nella lingua del siciliano, trova il suo corrispondente oggettivo nella pratica mafiosa. Potremmo, anzi, indicare “Musta ‘cca!” come il segno linguistico di questa pratica e la scomparsa progressiva del suo uso come il segnale di una mentalità o cultura che il popolo siciliano non vuole più riconoscere.
Il professor De Montis si fermò all’improvviso e fu chiaro a Telemaco che aveva avuto un ripensamento.
No! È probabile che il “Musta ‘cca” non riguardi solo la mentalità mafiosa, ma ogni prepotenza che un singolo o un’organizzazione sociale fanno nei confronti dei più deboli.
Ci furono lunghi momenti di silenzio e nel frattempo rivolsero i loro occhi verso il mare, verso il suo orizzonte lontano, sgombro di ogni presenza umana. Solo alcuni gabbiani volavano in prossimità della riva o s’appoggiavano per brevi momenti sull’acqua facendosi trasportare dalle correnti. Infine il professor De Montis riprese a comunicare a Telemaco i suoi pensieri.
Ti voglio adesso parlare di un’altra espressione, ben diversa da quella di prima: “Fai u saggiu”. Questa sì che l’hai sentita qualche volta.
Qualche volta.
In italiano “u saggiu” è il saggio, l’uomo adulto, molto spesso in età avanzata, che dà segni evidenti di equilibrio e di assennatezza. Nel nostro dialetto il termine viene usato nelle tipiche espressioni imperative “Fai u saggiu!”, “Stai saggiu!”, “Diventa saggiu!” che gli adulti rivolgono a bambini e ragazzini particolarmente vivaci quando ne combinano una delle loro. È un invito contingente o un consiglio per la vita? Mi piace propendere per questa seconda interpretazione, anche se ritengo che simili esortazioni risultino di difficile realizzazione per dei ragazzi. Confronta, ad esempio, “Fai u saggiu!” con la corrispondente esortazione in lingua italiana “Fai il buono!”. C’è una bella differenza tra le due. Fare il buono è impresa incommensurabilmente più facile per un bambino piuttosto che fare il “saggio”. Anche perché nei momenti d’intimità tra l’esortante, in genere un parente stretto, e l’esortato, il bambino, l’invito “Fai u saggiu!” si trasforma in “Diventa saggiu!”. Se allora prendiamo in considerazione queste due ultime espressioni, risulta più evidente il carattere di impegno per la vita al quale il bambino è chiamato. Ma può un bambino fare “il saggio”? Non è probabile che ci preoccupiamo della saggezza dei bambini in considerazione della nostra stoltezza, così sperando che loro possano fare meglio di noi?
Il sole s’avvicinava allo zenit e Telemaco pensò che era arrivato il momento di tornare a casa. Il professor Socrate De Montis pensò la stessa cosa.
Andrai a casa adesso?
Sì!
I due si salutarono e mentre il ragazzo si dirigeva verso le case della città non si chiese se quel giorno era stato un giorno importante per lui, ma pensò che il linguaggio era quanto di più straordinario gli uomini avessero mai inventato per ricreare la realtà nella quale viviamo.
*Salvatore Barone vive a Licodia Eubea, provincia di Catania, Sicilia. Si è occupato di cinema e in particolare della nouvelle vague francese. Ha soggiornato in varie città tra cui Londra, Parigi, Zurigo e Roma. Tra le sue opere vi sono raccolte di poesie (Movimenti liberi, 1988), storielle (Demetra ascolta, 1999). E’ autore della trilogia di romanzi brevi Pierrot lunaire, Fraulein Folgheraiten, In una conca di luce pienamente solare. Il suo ultimo lavoro è Càliti juncu, proverbi e detti siciliani meditati.
In this section all materials and documents useful to submit European projects: – Documentation for exercises and assignments – Call for proposals complete documentation – Public procurement
Formatore e consulente PA nell’ambito delle politiche del lavoro e dell’istruzione e formazione. In particolare, ha sviluppato una lunga carriera nell’ambito di implementazione e gestione dei sistemi regionali di certificazione delle competenze – costruzione di sistemi regionali di standard professionali, formativi e di individuazione, validazione e certificazione delle competenze. Si occupa da oltre vent’anni di progettazione di percorsi di orientamento e formazione per Istituzioni scolastiche, Università e Agenzie formative in ambito nazionale e internazionale.
Cleto Corposanto è professore ordinario di Sociologia all’UMG di Catanzaro. Si occupa di metodi di ricerca e salute/malattia. Già coordinatore nazionale AIS – Salute e Medicina. Ha al suo attivo oltre 200 pubblicazioni e molte consule
Professore ordinario presso il dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università di Trento, si occupa di organizzazione dei servizi sociali e socio sanitari. Ha studiato sociologia, economia e antropologia in Italia, Germania, Gran Bretagna e Svizzera. Lavora da molti anni sui temi del terzo settore, delle organizzazioni della società civile e della cittadinanza attiva. Ha scritto su questi argomenti molti libri e articoli.
Presentazione del corso
27 maggio ore 10.00 Sociologia UMG Catanzaro
Introduzione ai contenuti del corso e prima conoscenza dei partecipanti
Docenti e Centro Servizi Volontariato Centro Calabria
Il presente corso è erogato in modalità di auto-formazione. Cos’è? Si tratta di una modalità di apprendimento in cui gli individui assumono la responsabilità principale del proprio processo di acquisizione delle conoscenze. In un contesto di corso online come questo, l’auto-formazione implica che i partecipanti siano i principali protagonisti del loro apprendimento, gestendo autonomamente il proprio percorso formativo.
Nella pratica, l’auto-formazione coinvolge diversi aspetti:
Studio indipendente: I partecipanti accedono ai contenuti del corso, come moduli, lezioni o materiali didattici, e li esplorano in base alle proprie esigenze e preferenze, decidendo quando e per quanto tempo dedicarsi a ciascun argomento.
Autovalutazione: i partecipanti assumono la responsabilità di valutare il proprio livello di comprensione e di progresso. Possono riflettere criticamente sulla loro conoscenza, identificare eventuali lacune e individuare le aree che richiedono un ulteriore approfondimento.
Ricerca e approfondimento: significa poter utilizzare risorse aggiuntive, come libri, articoli, video o siti web, per approfondire gli argomenti trattati nei moduli. L’auto-formazione incoraggia la curiosità e la ricerca attiva, consentendo ai partecipanti di ampliare le proprie conoscenze al di là dei contenuti forniti dal corso.
Interazione con i colleghi: i partecipanti possono interagire con gli altri studenti tramite piattaforme online dedicate, forum di discussione o chat. Queste interazioni consentono di scambiare opinioni, condividere esperienze, porre domande e collaborare nello sviluppo delle conoscenze.
Monitoraggio e adattamento: i partecipanti sono responsabili del monitoraggio dei propri progressi e dell’adattamento del proprio percorso formativo di conseguenza. Possono identificare gli obiettivi da raggiungere, stabilire tappe di valutazione e apportare eventuali modifiche o integrazioni al loro programma di studio.
I Vantaggi dell’Apprendimento DiagonalCampus:
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Come rendere produttivi i contenuti:
Pianificazione e Organizzazione: Prima di iniziare ogni modulo, prendetevi del tempo per pianificare il vostro studio. Definite obiettivi chiari e stabilite una routine di studio regolare. Creare una tabella di marcia vi aiuterà a seguire un percorso strutturato e a mantenere il focus durante l’apprendimento.
Prendere Appunti e Sintetizzare: prendete appunti e sintetizzate le informazioni chiave. Potrete così consolidare le conoscenze acquisite e a creare un riferimento rapido per eventuali revisioni future. Utilizzate anche schemi concettuali o mappe mentali per visualizzare le relazioni tra le diverse informazioni e facilitare la comprensione complessiva.
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Insegna “Mercato del lavoro e Progettazione sociale” al corso di laurea in Sociologia dell’Università Magna Græcia di Catanzaro. Sociologo, giornalista professionista dal 1994, è stato Direttore del Cerisdi (Centro di Ricerca e Studi Direzionali) fondato da padre Ennio Pintacuda a Palermo e Direttore Strategico di Crisea (Centro di Ricerca e Servizi Avanzati per l’Innovazione Rurale) in Calabria.
Ha ideato e animato vari Network internazionali, tra cui la rete europea Diagonal. È il fondatore della piattaforma editoriale web The diagonales (www.diagonales.it) e del Network partecipativo PYou (www.pyou.org).
Il suo ultimo lavoro si intitola “Il progettista sociale. Osservazioni partecipanti” ed è stato pubblicato da Rubbettino Ed.
Project implementation and reporting is an important aspect of project management. In this section we will cover the important administrative, financial and document procedures, the project team and its principles of quality and control.
In this section we will study approaches to project management. In particular we will examine the Logical Framework, management diagrams and aspects related to project evaluation. We will also take care of the budgeting.
Once you have understood the logic of European funds and explored their characteristics, in this section you will explore the main success factors: the project management cycle, the design process phases, stakeholder analysis, tools and methodologies for build a good project.
DOCTOR LIVINGSTONE, I PRESUME
“Doctor Livingston, I presume” is a phrase that has somehow remained in history. Lovers of great travel and travelers know it very well, but it has become part of the lexicon of many others, even those who consider travel from home to sea as the maximum possible travel.
The sentence was pronounced on November 10, 1871, by the well-known journalist and explorer Henry Morton Stanley – Welshman by birth and American by adoption – in Ujiji, an ancient city in Tanzania located on the shores of Lake Tanganyika. In front of him was David Livingstone, physician, missionary and explorer of Scottish origins. Two intricate stories, one in front of the other.
Henry Morton Stanley was born as John Rowlands, in Denbigh in Northeastern Wales, in 1841. An illegitimate son, he never knew from his mother – who entrusted him to an orphanage – who his father was. When he was 17 years old, he embarked for New Orleans to begin his second life as an American citizen, at first becoming an archivist and freelance journalist later.
It was only in 1869 that it was decided to send someone in search of him, and the choice fell precisely on Henry Morton Stanley, who in turn faced the journey in the black continent on the trail of Livingstone, managing to track him down after two years. It was, precisely, November 10, 1871; and as if they were two friends they did not see each other, they greeted each other as if they had met by chance at a dinner. In fact, they were probably the only two non-African men within hundreds of kilometers. Livingston died two years later, in 1873, from malaria.
This photo was taken in Livingstone, a city that took its name from the great European explorer, in present-day Zambia (formerly northern Rhodesia).
The city, just beyond the border with Zimbabwe, is about ten kilometers from Victoria Falls and between 1911 and 1935 it was also the capital of the then English colony, before the headquarters were moved to Lusaka.
In Livingstone, today, it is possible to visit a small museum linked to the adventurous life of this great traveler, who in Africa chose to live and die. An interesting place for a great traveler, an obligatory stop after admiring, entranced, the splendor of nature represented by the Victoria Falls.
DOCTOR LIVINGSTONE, I PRESUME
“Dottor Livingston, I presume” è una frase in qualche modo rimasta nella storia. La conoscono molto bene gli appassionati di grandi viaggi e viaggiatori, ma è entrata a far parte del lessico di molti altri, anche di quelli che considerano il viaggio da casa a mare come il massimo degli spostamenti possibili.
La frase la pronunciò, il 10 novembre 1871, il noto giornalista ed esploratore Henry Morton Stanley – gallese di nascita e americano di adozione – a Ujiji, antica città della Tanzania posta sulle rive del lago Tanganica. Difronte a lui c’era, appunto, David Livingstone, medico, missionario ed esploratore di origini scozzesi. Due storie intricate, una difronte all’altra.
Henry Morton Stanley nacque come John Rowlands, a Denbigh nel Galles nord-orientale, nel 1841. Figlio illegittimo, non seppe mai da sua madre – che lo affidò ad un orfanotrofio – chi fosse suo padre. A 17 anni si imbarcò con destinazione New Orleans, per cominciare la sua seconda vita come cittadino americano, fino a diventare archivista prima e giornalista freelance poi.
Fu solo nel 1869 che si decise di inviare qualcuno alla sua ricerca, e la scelta cadde proprio su Henry Morton Stanley, che affrontò a sua volta il viaggio nel continente nero sulle tracce di Livingstone, riuscendo dopo due anni a rintracciarlo. Era, appunto, il 10 Novembre 1871; e come se fossero due amici non si vedevano da poco, si salutarono come se si fossero incontrati per caso ad una cena. In realtà, erano probabilmente gli unici due uomini non africani nel raggio di centinaia di chilometri. Livingston morirà due anni dopo, nel 1873, di malaria.
Questa foto è stata scattata a Livingstone, città che ha preso il nome proprio dal grande esploratore europeo, nell’attuale Zambia (ex Rhodesia settentrionale). La città, poco al di là del confine con lo Zimbabwe, dista una decina di chilometri dalle cascate Victoria e tra il 1911 e il 1935 fu anche capitale dell’allora colonia inglese, prima che la sede fosse spostata a Lusaka.
A Livingstone, oggi, è possibile visitare un piccolo museo legato alla vita avventurosa di questo grande viaggiatore, che in Africa scelse di vivere e di morire. Un posto interessante per un grande viaggiatore, una tappa obbligata dopo aver ammirato, estasiato, quello splendore della natura rappresentato dalle cascate Victoria.
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