Riti senza popolo

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by Domenico Bilotti, exclusive for The diagonales

Nella storia delle religioni si sono imposti due grandi dilemmi, che si sono naturalmente espansi al contatto col diritto ecclesiastico e col diritto interculturale: quei proteici segmenti di ordinamento giuridico che grazie alla pluridimensionalità e alla non mera statualità sanno, come pochi, caricare la norma di nuovi quesiti. Può esistere un rito religioso senza un popolo che lo segua, lo viva, lo partecipi, lo agisca? Ed è religione tutto ciò che prevede un assembramento rituale e codificato, di simboli predeterminati e di condotte tacitamente note a chi vi partecipa?

Quanto al primo interrogativo, può essere una buona pista di ricerca misurarsi coi lineamenti della spiritualità orientale e, più in generale, con tutte quelle forme anche interne alla cristianità occidentale che riflettono sulla domanda singolare del rito religioso perché in definitiva rimandano all’esistenza di una nozione individuale di disciplina. L’eremita che si occulta, il monaco che prega, l’asceta che governa il silenzio perché se ne fa governare … stanno forse prendendo parte a un rito religioso? Ne fanno parte? Lo costituiscono? Anche la solitudine e la contemplazione hanno in fondo i loro riti, e sono riti che necessitano di un contesto. È perciò ovvio che la piena solitudine, intesa come separazione, in fondo necessiti di un prima di relazioni e di contatti. Esattamente come la piena collettività (la si sia chiamata popolo, nazione, ecclesia, o addirittura folla e massa) non riesce a escludere mai del tutto l’esistenza e l’esigenza di un pensiero che sia direttamente del singolo partecipe, di una sua reazione, di una sua emozione o, ancor più, di una sua specifica condotta commissiva.

Quanto al secondo quesito, è evidente che la nostra realtà storica – almeno da alcuni secoli – abbia plasticamente messo in mostra delle forme aggregative collettive certamente rituali, ma non per questo liturgiche, nel senso ecclesiastico del lemma. È successo finanche con alcune leadership politiche, in fondo basate sull’adorazione taumaturgica del reggitore dello Stato (si consideri, a questo titolo, l’ampia letteratura che ha affrontato in Cina la vicenda della morte di Mao come questione teologica). Succede con alcune pratiche di consumo largamente condivise, quelle per le quali è quel tipo di consumo a determinare l’adesione a una comunità, la compresenza a uno zeitgeist, forse meno vincolante eppure molto più reticolare dello “spirito del popolo”, di un’appartenenza ancestrale di sangue e terra al volksgeist.

Possiamo, perciò, concluderne che esistono forme di rito religioso che fanno a meno del popolo dei fedeli, ma che persino in quei casi continuano a rimandare all’esistenza di un contesto etico-culturale (di un sensus fidei) che non può fare a meno dell’idea di relazione.

E del pari possiamo concludere che non tutte le aggregazioni simboliche che implicano una soggezione pattuita a un rito o a un codice sono perciò solo religiose, ma che persino queste si saldano all’etimologia corretta del lemma religione. In questo caso, la millenaria distanza tra la proposta di Cicerone, che fa derivare la religione dal relegere latino nel senso di “ripercorrere” e “collezionare”, e quella di Tertulliano, secondo cui la religione è conseguenza del religare l’essere umano a certe pratiche, sfuma fino ad azzerarsi. Non sono l’uno e l’altro significato l’effetto di una socialità della specie, di un darsi legge, che sia questa contenuta in un’antologia di icone o in una cernita di disposizioni?

Il lockdown e la persistente, peraltro fondata, paura di una nuova ondata di epidemia, con conseguenti ipotesi di nuovi blocchi e nuovi panici e nuove ansie, hanno fatto tornare alla nostra attenzione entrambi i quesiti con cui abbiamo iniziato queste considerazioni.

L’antropologia del rito deve chiedersi se sacrificare o ridisciplinare la presenza del popolo ponendosi nell’interesse di quest’ultimo, custodendone la necessaria partecipazione ai destini del mondo. E del pari tutti i riti sociali della nostra identità sono oggi sospesi, tra avventatezze stizzite e paure inevase, e le une e le altre li svuotano del senso che eravamo loro soliti attribuire.

Nel limbo del tempo, nel tempo necessario alla produzione degli effetti, è difficile esigere neutralità alle coscienze. Anzi, la qualità della loro militanza al presente sarà sola possibilità del loro futuro.


Domenico Bilotti collaborate with The diagonales.  He is adjoint professor of “History of Religions” at the Magna Graecia University of Catanzaro (South Italy) and holder of courses at the Master’s in “Cultural Heritage and Ecclesiastical Heritage” of the same university. The rest of the time he observes, reads, travels, attends soccer stadiums.