Sotto minaccia. Quando le parole diventano armi

by Massimo Fotino –

È il caso allora di rileggere questo “An integrated threat theory of prejudice” con cui nel 2000 due Stephan, Walter e Cookie, inaugurarono gli studi sulla percezione delle minacce da parte di gruppi sociali come fattore di nascita dei pregiudizi.

Le minacce son sol arme dello aminacciato, scriveva Leonardo da Vinci. E già, perché la minaccia che percepiamo ha due facce, concava e convessa, parte dello stesso angolo, e con una controparte: l’orso o il lupo, spaventati dalla presenza umana; l’aggressore, provocato da una società che lo emargina; i governi, a fonte di crisi epocali; le aggressive potenze nucleari, con avversari dotati anch’essi di forza atomica, le religioni, fobiche nei confronti di altre confessioni, eccetera.È una disarmonica sintonia in cui c’è uno che sente la minaccia e un altro che crede di produrre solo avvertimenti, preavvisi, sanzioni, ma in realtà usa anche egli la minaccia.

Da questa interdipendenza nascono stereotipi che sfociano in ostilità e a cui si accompagnano manipolazioni del linguaggio. Se le minacce, per così dire, si sovrappongono, allora non si può rispondere al nemico con azioni di forza e si gioca paradossalmente in modo “civile”, ovvero in forme “pacifiche” o meglio meno belliche con codici discorsivi intimidatori, distorsivi, alterati come i bluff e le fake. Quando la minaccia può essere dichiarata ma non attuata, l’armamentario (sic) comunicativo si affina e cerca di mostrarsi il più possibile credibile al fine di, come diceva Schelling, “non solo “prendere” o “conquistare” ma soprattutto “far male”.

Stephan, W. G., & Stephan, C. W. (2000). An integrated threat theory of prejudice. In S. Oskamp (Ed.), Reducing prejudice and discrimination (pp. 23–45). Lawrence Erlbaum Associates Publishers