Trump, Ue e la protezione dello Stato di diritto e dei diritti umani

by Therry Vissol, published on pagina21.eu

Il 6 e 7 gennaio, in mezzo all’assalto del Capitol Hill dalle orde barbariche trumpiane, dopo 4 anni di presidenza con 26.193 tweet in gran parte fake-news, di decisioni presidenziali MAGA (Make America Great Again), di disfacimento del multilateralismo pazientemente costruito dagli USA stessi dalla fine della Seconda Guerra mondiale, dopo 3 mesi di rifiuto del risultato delle urne, nonostante la conferma dei risultati da parte di tutte le Corti giuridiche e costituzionali alle quali erano confluite le richieste di annullamento dei voti, nonostante tutto quindi, sono stati 147 i parlamentari del Great Old Party (8 senatori e 139 deputati) che hanno rifiutato di certificare i risultati delle elezione e la nomina di Joe Biden come presidente degli USA.

Malgrado la disfatta relativa di Trump – sono stati 74.223.744 a votarlo (il 46,9 % dei votanti), la popolarità del presidente uscente rimane alle stele tra i conservatori (il 90%) e, secondo un sondaggio YouGov di meta gennaio, il 64% degli elettori repubblicani stimano che la vittoria di Biden sia stata rubata. Cioè, né la chiara cospirazione di Trump e dei suoi avvocati, né il tentativo di putsch hanno impedito a un incredibile quantità di membri del Congresso di tentare quello che si può chiamare un «ratto costituzionale».

Può sembrare strano iniziare un articolo sull’Ue e lo Stato di diritto parlando degli USA, ma non lo è. La Democrazia in America per noi europei da Tocqueville in poi e per gli americani è sempre stata considerata come un modello, grazie alla sua Costituzione e al suo sistema di «check and balances» cioè di controllo reciproco delle varie istituzioni democratiche. Eppure, questo sistema è fallito spesso durante la presidenza di Trump, grazie alla sua maggioranza parlamentare, le sue nomine alla Corte Costituzionale e soprattutto al suo uso del potere presidenziale di emettere degli «executive orders», potere iscritto nella costituzione e esteso grazie a due leggi: il National Emergencies Act (1976) e l’International Emergency Economic Powers Act (1977). Certo, infine, Joe Biden è stato nominato 46° presidente, tuttavia il paese rimane tagliato in due con una grande parte di americani (il 34 % secondo un sondaggio Gallup di inizio gennaio 2021) che non ha più fiducia nel sistema di democrazia rappresentativa.

Quindi la domanda è: disponiamo noi europei di «check and balances» che potrebbero impedire ratti costituzionali e la violazione dei valori fondanti delle nostre democrazie cioè lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani? La risposta a questa domanda è chiaramente no, al livello degli Stati membri dell’Ue, come lo dimostrano le violazioni dello Stato di diritto e dei diritti umani almeno da parte della Polonia e dell’Ungheria e in minor modo di molti altri paesi come evidenziato nella prima Relazione sullo Stato di diritto pubblicata dalla Commissione europea nel settembre 2020.

Inoltre l’uso dello Stato di emergenza epidemiologica in quasi tutti gli Stati per fare fronte alla crisi sanitaria dal fine gennaio 2020, che attribuisce ai governi poteri speciali senza controllo parlamentari, ha permesso a molti di adottare misure non solo per limitare le libertà individuale con i lockdown – quello che potrebbe giustificarsi per fermare la diffusione del virus – ma anche la libertà di espressione, delegando spesso a delle società private o ai social network un potere di censura senza nessun controllo giudiziario per lottare contro le cosiddette fake-news o teorie del complotto.

Una evoluzione per lo meno preoccupante, sapendo che questa censura – senza, ancora una volta, nessun coinvolgimento della giustizia – è operata tramite algoritmi, spesso oscuri e senza nessuna capacità di distinguere tra satira e falsa informazione, o su base di decisioni unilaterali delle piattaforme. L’esempio tipico è stato la censura dei conti social dell’ex-presidente Trump, prima che siano chiuse le procedure in corso di impeachment. Si può chiedere il perché di questa censura specifica e dell’assenza di misure simile per altri capi di regimi illiberali o dittatoriali.

Carlos Amorim

La censura dell’informazione in rete o nei media, ma soprattutto durante le conferenze stampa del governo, è stata particolarmente criticata in Spagna al punto che oltre 20 testate, tra cui Il Mundo e ABCdue tra i principali quotidiani del Paese, e 200 giornalisti hanno deciso nell’aprile 2020 di non prendervi più parte. Ma la Spagna non è il solo paese a voler silenziare le critiche nei media, al punto che ben 3 volte l’anno scorso, il Parlamento europeo ha espresso una «profonda preoccupazione per lo stato della libertà dei media nell’Ue e denunciato le violenze, gli abusi e la pressione cui devono far fronte i giornalisti», con risoluzioni non legislativi adottate con una larga maggioranza: l’ultima del 25 novembre 2020 ha ottenuto 553 voti favorevoli contro 54 contrari e 89 astensioni.

Ora, lo Stato di diritto, che include la libertà di espressione e la pluralità dei media, la protezione dei diritti umani è iscritta nei trattati dell’Ue, particolarmente nell’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea (TUE) e nella carta dei diritti fondamentali dell’Ue, parte integrante dei trattati. Quindi si può chiedere, aldilà della situazione nei vari stati membri se l’Unione dispone di un sistema giuridico e di check and balances in grado di monitorare la situazione nei suoi membri e di prendere misure per fare rispettare i trattati per impedire derive antidemocratiche.

Tali misure o disposizioni legali, come richiede il Parlamento europeo nella sua risoluzione sui Diritti umani e democrazia nel mondo e politica dell’Ue in materia «dovrebbero servire a rafforzare il ruolo dell’UE come attore globale in materia di diritti umani, permettendo sanzioni mirate contro individui, autorità statali e non, e altre entità responsabili o anche solo complici di gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, quindi i deputati esortano i Paesi UE a sviluppare una strategia per contrastare la crescente tendenza degli Stati a recedere e opporre resistenza rispetto alle norme internazionali a protezione dei diritti umani e spingono per l’attuazione urgente del nuovo regime globale di sanzioni dell’UE in materia di diritti umani, come parte essenziale degli strumenti europei esistenti in materia di tutela dei diritti dell’uomo e di politica estera». Tuttavia, nonostante i richiami del Parlamento e della Commissione, l’Ue in materia non è un modello di virtù.

Stato di diritto e protezione delle minoranze all’interno dell’Ue
Polonia e Ungheria pongono problemi molto seri per il rispetto dello Stato di diritto, ossia delle regole democratiche, dell’indipendenza della giustizia, della tutela delle minoranze, della libertà di espressione e di stampa, del pluralismo dei media. Dal 2011 in Ungheria e dal 2015 in Polonia i partiti maggioritari hanno proceduto a ratti costituzionali, cioé hanno introdotto con voto parlamentare democratico delle modifiche alle loro Costituzioni e adottato leggi che vanno contro le regole democratiche e i principi sanciti nel Trattato sull’Unione europea (TUE), in particolare agli articoli 2, 3.3 e 6, e nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

Eppure, quando hanno negoziato le loro condizioni di adesione, hanno accettato i principi e tutte le regole dell’Ue, particolarmente i tre criteri di Copenaghen (1993) tra cui quello – imperativo – del rispetto della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti dell’uomo, delle minoranze e alla loro tutela. L’articolo 7 del TUE permette, in teoria, di sanzionare violazioni gravi di questi valori, ed è stato attivato nel 2018 contro Polonia e Ungheria. Tuttavia, difficilmente si arriveraà a delle sanzioni. La procedura deve essere indirizzata a un solo paese per volta, e la decisione di accertare una violazione grave e persistente deve essere presa all’unanimità dagli altri paesi. In questo caso, l’uno o l’altro paese sotto accusa potrebbe porre il veto sulle sanzioni contro l’altro.

Per aggirare queste difficoltà, il 3 maggio 2018, la Commissione ha presentato una proposta di regolamento sulla protezione del bilancio dell’Unione in caso di carenze generalizzate dello Stato di diritto negli Stati membri, basata sull’articolo 322 del TUE e sull’articolo 106 bis del trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica. La proposta definisce le carenze generalizzate in materia di stato di diritto come comprendenti in particolare la messa in pericolo dell’indipendenza del potere giudiziario, l’incapacità di prevenire, correggere e sanzionare le decisioni arbitrarie o illegali delle autorità pubbliche e la limitazione della disponibilità e dell’efficacia dei mezzi di ricorso.

Se la Commissione trova in uno degli Stati membri delle carenze generalizzate per quanto riguarda lo stato di diritto, può ricorrere a misure protettive tra cui la sospensione o la riduzione dei pagamenti dal bilancio dell’UE e il divieto di assumere nuovi impegni giuridici. Tuttavia, il Consiglio potrebbe porre il veto alla decisione della Commissione con una maggioranza qualificata e, il Parlamento non avrebbe voce in capitolo.

Carlos Amorim

Nel gennaio 2020, il Parlamento europeo, riprendendo le conclusioni della Commissione, dell’ONU, dell’OSCE e del Consiglio d’Europa, ha ritenuto che la situazione in Polonia e Ungheria si fosse deteriorata dal 2018 e ha quindi chiesto al Consiglio, come «assoluta necessità», di creare in difesa dello Stato di diritto quel meccanismo che è all’origine della decisione di legare l’esborso dei fondi UE al suo rispetto, cioè di adottare il regolamento proposto dalla Commissione. Il quale lo fu definitivamente dal PE e dal Consiglio il 16 dicembre 2020. Nel frattempo, Budapest e Varsavia hanno messo per più mesi il loro veto all’adozione del bilancio pluriannuale e del Recovery Fund fintanto che l’esborso dei fondi UE sarebbe vincolato al rispetto dello Stato di diritto come previsto dal regolamento. Tuttavia, il Consiglio europeo del 10 dicembre, con un vile compromesso, ha sospeso la sua applicazione per almeno un anno. Di fatto, la Commissione dovrà adottare delle linee guida sul modo in cui applicherà il regolamento, compresa una metodologia per effettuare le sue valutazioni. Visto che il diritto degli Stati membri di presentare un ricorso per l’annullamento del regolamento è esplicitamente menzionato, il Consiglio ha richiesto alla Commissione di non finalizzare le sue linee guida o proporre misure ai sensi del regolamento fino a dopo l’emissione del parere della Corte di giustizia in materia.

Quindi, se il nuovo rapporto annuale sullo Stato di diritto introdotto nel 2020 citato sopra e il regolamento adottato il 16 dicembre, costituiscono dei progressi notevoli per assicurare il rispetto dei trattati in materia di stato di diritto, le divergenze di fondo e di principio tra questi due paesi e l’Unione rimangono irrisolte. Il rischio è che, come accaduto finora, ogni mossa dell’UE in materia rimanga lettera morta.

La politica estera dell’Ue
Nella politica estera, l’Ue ha grande difficoltà ad essere l’attore globale in materia di rispetto dello Stato di diritto e dei diritti umani che si augurano il Parlamento europeo e la Commissione per vari motivi. Certo, esiste un alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, con un numeroso servizio europeo per l’azione estera. Tuttavia, non solo la politica estera rimane in gran parte nelle mani degli Stati membri, ma gli interessi nazionali predominano in materia. Non disponendo di forze armate, il potere dell’Unione in materia rimane uno soft power.

L’assenza di una reale unione politica rende difficile una vera geopolitica, particolarmente per contrastare le grandi potenze come gli USA, la Cina o la Russia. Spesso real politics e ragione di stato impongono priorità che non lasciano molto spazio alla difesa dello Stato di diritto e dei diritti umani. La dipendenza energetica di molti paesi membri dalla Russia, o la gestione dei migranti nelle relazioni con la Turchia ne sono esempi tipici. È più facile introdurre questi aspetti nei rapporti con paesi meno potenti, come sarà il caso nella nuova strategia comprensiva con l’Africa, proposta dalla Commissione nel marzo 2020, strategia che dovrebbe prendere il posto dell’Accordo di Partneship di Cotonou con i paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico).

Tipico dell’ingenuità dell’Unione, per non dire del cinismo del Consiglio europeo, è l’accordo d’investimento (Comprehensive Agreement on Investment) siglato con la Cina il 30 gennaio 2020, dopo 7 anni di negoziazioni, per assicurare una migliore reciprocità in materia di investimenti, di trasferimenti di tecnologia e appianare, al meno in parte, le regole del gioco.

Nessuno può ignorare la situazione politica della Cina, assai lontana da una democrazia occidentale (anche di quelle considerate illiberale) – e fiera di esserlo -. Situazione che si traduce nell’assenza di rispetto dei diritti dell’uomo in Cina stessa con il sistema di sorveglianza elettronica e l’eliminazione o l’imprigionamento degli opponenti e dissidenti, a Hong Kong con la repressione dei movimenti democratici, in Mongolia interna, l’uso del lavoro forzato e la repressione degli Uiguri nel Xinjiang, le pressioni militari nel mare di Cina, le tensioni con Taiwan, il tentativo di indebolire l’Unione con il gruppo 17+1, ecc.

Nel 2019, l’Ue pubblicò una Strategia Cinese, nella quale qualificava la Cina partner e concorrente ma anche di «rivale sistemico». Può quindi sembrare strano avere siglato un tale accordo con una potenza mondiale di primo piano così lontano dei nostri valori democratici. Nonostante Ursula Von Der Layen abbia affermato che l’accordo promuove i valori fondamentali dell’Europa, non si capisce bene come, in questo accordo, l’Ue riconcilierà i propri valori fondanti con i suoi interessi commerciali. Non solo, per esempio, i diritti dei lavoratori sono stati sacrificati per ottenere accesso al mercato cinese, ma non si sa come l’Ue potrebbe fare pressione sulla Cina in materia di Stato di diritto o di diritti umani. Certo esistono, come nel caso della Brexit, meccanismi per risolvere le dispute, affidati ad un organo terzo, ma la sua efficacia rimane da essere dimostrata.

Questi selezionati esempi conducono a mettere in dubbio la credibilità internazionale dell’Ue e dei suoi paesi membri di promuovere lo Sato di diritto e il rispetto dei diritti umani, almeno nei paesi del suo vicinato, nonostante gli sforzi del Parlamento europeo e il Piano d’azione per la Democrazia presentato dalla Commissione europea inizio dicembre 2020.

La vignetta in coperina è di Antonio Rodriguez.